Terapia assistita con psichedelici

           La storia dell’utilizzo degli psichedelici da parte degli esseri umani per motivi rituali e terapeutici risale a migliaia di anni fa. Si è documentato il suo uso nelle cerimonie al Monte Parnaso realizzate nell’oracolo di Delfi nella Grecia antica o nelle comunità indigene dei deserti del Messico. Ma il loro utilizzo nella psicoterapia occidentale moderna risale agli anni 50 del secolo passato, quando è iniziata la ricerca scientifica. Tuttavia, con la crescente popolarità degli usi ricreativi degli psichedelici e la loro messa al bando nel 1971 da parte degli Stati Uniti prima e di tutto il mondo occidentale poi, la ricerca è stata sostanzialmente interrotta in tutto il mondo, tranne in Svizzera, dove lo studio delle sostanze psichedeliche non si è mai interrotto (prof. Franz Vollenweider, Università di Zurigo, 1992). Anche se non altrettanto è avvenuto nell’ambito del loro utilizzo terapeutico.

            Nel 2001, in occasione del centesimo anniversario della nascita  di Albert Hoffmann, lo scopritore dell’LSD, viene inaugurata a Oslo una conferenza cui partecipano più di mille delegati provenienti da tutto il mondo. Alla fine della conferenza viene scritta e inviata una lettera aperta a tutti i ministri della salute, facendo appello alle autorità per riaprire la ricerca sull’LSD. Nessun paese risponderà ufficialmente, tranne la Svizzera.  Dopo quattro anni viene ufficialmente riavviata la ricerca sull’utilizzo terapeutico delle sostanze psichedeliche. Dal 2007 al 2012, lo psichiatra e psicoterapeuta Peter Gasser intraprende il primo studio sull’uso terapeutico dell’LSD, denominato “psycholiytic therapy”. Lo studio è mirato all’uso terapeutico delle sostanze su persone colpite da malattie gravemente invalidanti, come il cancro, e che presentano connessi problemi di ansia, depressione e crisi esistenziale. L’obiettivo è di verificare se queste persone possano trarre beneficio da una terapia coadiuvata dall’utilizzo di LSD.

            Sono passati diciassette anni da questo studio, e la ricerca sull’uso terapeutico di queste sostanze non ha smesso di crescere. Tutto ciò con risultati incoraggianti, che ne dimostrano il potenziale terapeutico per diversi tipi di disagio psichico, tra cui l’ansia (dos Santos, Osório, Crippa, Bouso, & Hallak, 2018), la depressione (Reiche et al., 2018), il disturbo da stress post-traumatico (PTSD; Sessa, Higbed, & Nutt, 2019) e la dipendenza (Winkelman, 2014).

            Come funzionano gli psichedelici?

            Finora, nel paradigma psichiatrico, la farmacologia è stata uno strumento, più o meno efficace, per affrontare i “sintomi” conseguenti a quello che si identifica come “disturbo mentale”. E il modo per farlo è intervenire a livello biochimico sui meccanismi che agiscono nella produzione di questi “sintomi”. Ad esempio, nel caso di una persona con problemi di ansia, che viene trattata con diazepam, lo psicofarmaco agisce a livello molecolare nei neurotrasmettitori, in modo da alterare la comunicazione biochimica tra i neuroni, con il risultato di una diminuzione dell’eccitabilità neuronale. Di conseguenza, il segnale di allarme disadattivo, prodotto dall’interpretazione soggettiva che la persona con problemi di ansia realizza di una determinata situazione, viene “bloccato” a livello molecolare, in modo che non viene elaborato come tale dal sistema nervoso. Così la persona con problemi di ansia evita di passare per la sgradevole esperienza fisica di sentire la sensazione di pericolo che, in qualche modo, la sua esperienza soggettiva sta interpretando come tale. In sintesi, il farmaco blocca a livello biochimico l’interpretazione disadattiva di pericolo che la persona realizza di una determinata situazione, sia questa reale o immaginaria.

            A livello farmacologico, gli psichedelici (LSD, psilocibina, mescalina, DMT/5-meoDMT, e la loro cugina l’entactogeno MDMA) sono sostanze che agiscono in modo totalmente diverso degli psicofarmaci che finora sono stati utilizzati nel campo della psichiatria, con lo scopo di trattare e alleviare o sedare il disagio psicologico. Gli psichedelici, al contrario degli psicofarmaci come gli ansiolitici o gli antidepressivi, non “bloccano” a livello molecolare l’attività celebrale. Con gli psichedelici si produce una iperstimolazione del sistema serotoninergico che facilita una iperconnessione tra le diverse aree del cervello, propiziando nella persona che è sotto i loro effetti uno stato alterato di coscienza. Uno stato caratterizzato, tra altre esperienze soggettive, da un’alterazione della percezione, da un’amplificazione della dimensione emotiva, da un’esperienza di dissoluzione dell’ego e di disintegrazione del senso dell’identità. Tutto ciò agisce sulla neuroplasticità celebrale, generando una condizione ottimale per far emergere nuove prospettive vitali, che favoriscono la possibilità di modificare i modelli disadattivi di comportamento, i pensieri e le emozioni alla base del disagio psichico. Tutto in modo esperienziale, non meramente descrittivo. La persona sente il cambiamento attraverso l’esperienza psichedelica, dando al suo potenziale terapeutico una dimensione trasformativa molto profonda. In questo senso, gli psichedelici non agiscono a livello dei sintomi, ma a livello esperienziale‑fenomenologico, creando un’esperienza capace di riconfigurare i modelli mentali poco funzionali della persona sofferente.

            A livello psicoterapeutico, per poter far uso del potenziale che offrono gli psichedelici, si sono sviluppati negli ultimi anni diversi modelli di terapia che hanno in comune la metodologia di preparare, accompagnare e sostenere la persona prima, durante e dopo l’esperienza psichedelica. Alcuni terapeuti ritengono che l’utilità di questa esperienza psichedelica stia nella dissoluzione dell’“ego” (disconnessione del default mode)  che porta la persona a viversi come unita al tutto e non più come separata e sola. Altri ricercatori danno più peso agli effetti biologici della neuroplasticità e della neurogenesi che permettono nuove connessioni e narrative. Infine si può anche leggere l’efficacia del processo che, in sintesi, insegna alla persona in difficoltà a leggere i “segnali di allarme” attivati nel corpo‑mente per quello che sono (segnali “adattivi” condizionati dal contesto). Soprattutto, a sentirsi in grado di affrontarli, piuttosto che etichettarli come sintomi di una malattia, giustificando così, il loro evitamento.

           La terapia psichedelica si sviluppa in diverse fasi:

  1. Una prima fase di preparazione, dove si realizzano delle sessioni di psicoterapia prima dell’assunzione degli psichedelici. È un momento importante per stabilire un rapporto di fiducia in cui si prepara la persona all’esperienza psichedelica e per essere sicuri che la persona non risponda ad alcun criterio di esclusione.
  2. La sessione di assunzione dello psichedelico, che può durare da sei ore, nel caso della psilocibina, a dodici nel caso dell’LSD. Normalmente, questa si realizza in una stanza ad hoc per la terapia, dove la persona, dopo l’assunzione della dose di psichedelico, si sdraia in un lettino con gli occhi bendati, accompagnata da un terapeuta e da un professionista sanitario che garantiscono la sicurezza nello svolgimento dell sessione.
  3. Fase di elaborazione della esperienza. Dopo la sessione vengono organizzati a distanza di tempo uno o più sedute/incontri con lo psicoterapeuta in cui si elabora e si integra tutto ciò che è emerso durante l’esperienza psichedelica.
  4. La terapia assistita da psichedelici sembra dare risultati migliori se si realizzano almeno due sessioni. In questo caso la persona, dopo un intervallo di tempo di qualche settimana, assume nuovamente lo psichedelico con una successiva rielaborazione e integrazione con lo psicoterapeuta.

Questo nuovo modello di terapia, che si basa sulla tradizione della saggezza antica e si sostiene sulla più rigorosa ricerca scientifica, segnerà forse i prossimi anni, cambiando il modo di alleviare la sofferenza umana del disagio psichico. Senza dubbio, qualcosa per cui vale la pena lavorare.

Qui segue una testimonianza di una persona dopo la terapia assistita dagli psichedelici:

“Provare dolore emotivo in risposta ad eventi traumatici non è una malattia. È normale, considerando quello che si sta attraversando nella vita.

La medicalizzazione e la privatizzazione del dolore emotivo e della sofferenza mentale non aiutano le persone. Dobbiamo cambiare la narrazione in modo che sperimentare le nostre emozioni con forza o attraversare un momento difficile nella vita non venga etichettato come “malattia mentale”.

            Quando le piante non stanno andando bene cambiamo le loro condizioni, il terreno, la posizione, ecc. Quindi, forse, invece di trattare le persone come “pazienti” possiamo trattarle come piante. Viviamo in un mondo traumatizzante, travolgente e incerto. La sofferenza non può essere sradicata, ma possiamo cambiare il modo in cui la vediamo in modo da poter soffrire meno.

             Guarire non significa porre fine al trauma e alla sofferenza. Guarire significa imparare a vivere una vita significativa nonostante il trauma e la sofferenza.”