Terapia Psichedelica Assistita

Come funzionano gli psichedelici?

   Finora, nel paradigma psichiatrico, la farmacologia è stata uno strumento, più o meno efficace, per affrontare i “sintomi” conseguenti a quello che si identifica come “disturbo mentale”. E il modo per farlo è intervenire a livello biochimico sui meccanismi che agiscono nella produzione di questi “sintomi”. Ad esempio, nel caso di una persona con problemi di ansia, che viene trattata con diazepam, lo psicofarmaco agisce a livello molecolare nei neurotrasmettitori in modo da alterare la comunicazione biochimica tra i neuroni, con il risultato di una diminuzione dell’eccitabilità neuronale. Di conseguenza, il segnale di allarme disadattivo, prodotto dall’interpretazione soggettiva che la persona con problemi di ansia realizza di una determinata situazione, viene “bloccato” a livello molecolare, in modo che non viene elaborato come tale dal sistema nervoso. Così, la persona con problemi di ansia evita di passare per la sgradevole esperienza fisica di sentire la sensazione di pericolo che, in qualche modo, la sua esperienza soggettiva sta interpretando come tale. In sintesi, il farmaco blocca a livello biochimico l’interpretazione disadattiva di pericolo che la persona realizza di una determinata situazione, sia questa reale o immaginaria.

 A livello farmacologico, gli psichedelici (LSD, psilocibina, mescalina, DMT/5-meO-DMT, e il loro cugino, l’entactogeno MDMA) sono sostanze che agiscono in modo totalmente diverso dagli psicofarmaci che finora sono stati utilizzati, nel campo della psichiatria, con lo scopo di trattare e alleviare, o sedare, il disagio psicologico. Gli psichedelici, al contrario degli psicofarmaci come gli ansiolitici o gli antidepressivi, non “bloccano” a livello molecolare l’attività celebrale. Con gli psichedelici si produce una iperstimolazione del sistema serotoninergico che facilita una iperconnessione tra le diverse aree del cervello, propiziando nella persona che è sotto i loro effetti uno stato alterato di coscienza. Uno stato caratterizzato, tra altre esperienze soggettive, da un’alterazione della percezione, da un’amplificazione della dimensione emotiva, da un’esperienza di dissoluzione dell’ego e di disintegrazione del senso dell’identità. Tutto ciò agisce sulla neuroplasticità celebrale, generando una condizione ottimale per far emergere nuove prospettive vitali, che favoriscono la possibilità di modificare i modelli disadattivi di comportamento, i pensieri e le emozioni alla base del disagio psichico. Tutto in modo esperienziale, non meramente descrittivo. La persona sente il cambiamento attraverso l’esperienza psichedelica, dando al suo potenziale terapeutico una dimensione trasformativa molto profonda. In questo senso gli psichedelici non agiscono a livello dei sintomi, ma a livello esperienziale‑fenomenologico, creando un’esperienza capace di riconfigurare i modelli mentali poco funzionali della persona sofferente.

   A livello psicoterapeutico, per poter far uso del potenziale che offrono gli psichedelici, si sono sviluppati negli ultimi anni diversi modelli di terapia che hanno in comune la metodologia di preparare, accompagnare e sostenere la persona prima, durante e dopo l’esperienza psichedelica. Alcuni terapeuti ritengono che l’utilità di questa esperienza psichedelica stia nella dissoluzione dell’“ego” (disconnessione del default mode) che porta la persona a viversi come unita al tutto, e non più come separata e sola. Altri ricercatori danno più peso agli effetti biologici della neuroplasticità e della neurogenesi, che permettono nuove connessioni e narrative. Infine si può anche leggere l’efficacia del processo che, in sintesi, insegna alla persona in difficoltà a leggere i “segnali di allarme” attivati nel corpo‑mente per quello che sono (segnali “adattivi” condizionati dal contesto). Soprattutto, a sentirsi in grado di affrontarli, piuttosto che etichettarli come sintomi di una malattia, giustificando, così, il loro evitamento.

   La terapia psichedelica si sviluppa in diverse fasi:

  1. Una prima fase di preparazione, dove si realizzano delle sessioni di psicoterapia prima dell’assunzione degli psichedelici. È un momento importante per stabilire un rapporto di fiducia, in cui si prepara la persona all’esperienza psichedelica, e per essere sicuri che la persona non risponda ad alcun criterio di esclusione.
  2. La sessione di assunzione dello psichedelico, che può durare da sei ore, nel caso della psilocibina, a dodici, nel caso dell’LSD. Normalmente, questa si realizza in una stanza ad hoc per la terapia, dove la persona, dopo l’assunzione della dose di psichedelico, si sdraia in un lettino con gli occhi bendati, accompagnata da un terapeuta e da un professionista sanitario, che garantiscono la sicurezza nello svolgimento del sessione.
  3. Fase di elaborazione della esperienza. Dopo la sessione vengono organizzati a distanza di tempo uno o più sedute/incontri con lo psicoterapeuta, in cui si elabora e si integra tutto ciò che è emerso durante l’esperienza psichedelica.
  4. La terapia assistita da psichedelici sembra dare risultati migliori se si realizzano almeno due sessioni. In questo caso la persona, dopo un intervallo di tempo di qualche settimana, assume nuovamente lo psichedelico con una successiva rielaborazione e integrazione con lo psicoterapeuta.

   Questo nuovo modello di terapia, che si basa sulla tradizione della saggezza antica e si sostiene sulla più rigorosa ricerca scientifica, segnerà forse i prossimi anni, cambiando il modo di alleviare la sofferenza umana del disagio psichico. Senza dubbio, qualcosa per cui vale la pena lavorare.

   Qui segue la testimonianza di una persona dopo l’esperienza della terapia psichedelica assistita:

  “Provare dolore emotivo in risposta ad eventi traumatici non è una malattia. È normale, considerando quello che si sta attraversando nella vita. La medicalizzazione e la privatizzazione del dolore emotivo e della sofferenza mentale non aiutano le persone. Dobbiamo cambiare la narrazione, in modo che sperimentare le nostre emozioni con forza, o attraversare un momento difficile nella vita, non vengano etichettati come “malattia mentale”.

   Quando le piante non stanno andando bene cambiamo le loro condizioni, il terreno, la posizione, ecc. Quindi, forse, invece di trattare le persone come “pazienti” possiamo trattarle come piante. Viviamo in un mondo traumatizzante, travolgente e incerto. La sofferenza non può essere sradicata, ma possiamo cambiare il modo in cui la vediamo in modo da poter soffrire meno.

     Guarire non significa porre fine al trauma e alla sofferenza. Guarire significa imparare a vivere una vita significativa nonostante il trauma e la sofferenza”.